L'ALTRA META' DEL GENIO

Aspasia la donna di Pericle che passò nel mito grazie a Leopardi

Il poeta di Recanati dedicò a Fanny Targioni Tozzetti il ciclo di poesie intitolato alla donna ateniese moglie di Pericle

di Francesca Allegri

Fanny Targioni Tozzetti era una donna affascinante; ricca, colta, sposata con un uomo importante, bella; era al centro di un salotto dove si incontravano uomini di cultura e  di mondo, in una città, che pur non essendo più il centro della civiltà nazionale come lo era stata in passato, era comunque frequentata dall'intellighenzia europea: Firenze. Ovviamente le si attribuivano molti amanti, cosa che all'epoca non scandalizzava nessuno, soprattutto la così detta buona società.

Fra coloro che frequentavano il suo salotto, come si sa, Giacomo Leopardi che a lei, ultimo non ricambiato amore, dedicò alcuni dei suoi scritti più belli. Sentimentali le parole che Fanny scrisse all'amico di lui, Ranieri, non appena venne a sapere della morte del Poeta: “La disgrazia della morte del povero nostro Leopardi mi ha annientata;... Io partecipo grandemente al vostro dolore, io sento il vuoto che proverete nelle vostre abitudini, e quel male che cagiona la perdita d’un amico che si amava, e stimava, male che le parole non valgono ad esprimere, male che il tempo non basta a dissipare.”

Ma anni dopo a chi le chiedeva perché avesse rifiutato l'amore di Giacomo, con fiorentino atroce sarcasmo rispose:  Puzzava, il che forse era vero ma assai poco generoso. L’insieme delle poesie a lei dedicate, come è noto, prende il nome di Ciclo di Aspasia.

Ma perché proprio Aspasia? Che cosa ha in comune una signora fiorentina dell'Ottocento con una donna vissuta più di duemila anni prima? Chi era dunque la prima Aspasia? Di certo sappiamo era originaria di Mileto, una delle più vivaci e ricche colonie greche in Asia minore. Come sia giunta ad Atene rimane oscuro; alcuni storici ipotizzano che fosse parente acquisita di Alcibiade Maggiore, forse la giovane cognata, sorella della  moglie. Quando Alcibiade tornò in patria dopo l'esilio, proprio a Mileto, non  è improbabile che l'abbia condotta con sé.

Ad Atene, tuttavia, la condizione sociale della giovane non era delle più facili: non era cittadina ateniese, ma quella che all'epoca veniva definita una meteca, cioè una donna libera, ma non essendo nata in città priva di alcuni diritti, nell'impossibilità, quindi, di sposare un ateniese. Pericle stesso aveva fatto approvare una legge per la quale i figli di un cittadino e di una straniera, e viceversa, non avevano diritti politici e d' altra parte il matrimonio era l' unica sistemazione onorevole per una donna, nessuna altra via era possibile.

Una meteca poteva quindi solamente divenire concubina, il che tuttavia le garantiva alcuni fondamentali diritti perché era una condizione ben codificata. Come e dove Aspasia abbia incontrato per la prima volta Pericle non sappiamo, forse si conobbero nell'ambito della famiglia degli Alcmeonidi allora molto influente e alla quale lui stesso era legato.

All'epoca l'uomo politico era sposato, legato a un matrimonio del tutto tradizionale. Il matrimonio nell'Atene classica era inteso in un modo molto diverso dal nostro, la vita di una donna sposata era completamente separata da quella del marito, raramente si allontanava dalla porzione della casa destinata alle donne, non partecipava in nessun modo alla vita non solo politica, ma nemmeno civile; il suo compito era esclusivamente quello di badare all'economia domestica e partorire figli legittimi, uscendo di rado e quasi esclusivamente per assistere a cerimonie religiose. 

Lo stesso Pericle in un famoso discorso nel quale commemorava i caduti del primo anno di guerra del Peloponneso aveva compianto i padri, i fratelli, gli amici e solo per ultime le vedove, aggiungendo che il complimento migliore per una donna era che non ne fosse conosciuto nemmeno il nome; e infatti della moglie di  Pericle nemmeno questo conosciamo, sappiamo, però che non si oppose al divorzio, anzi lo accettò con piacere, sebbene avesse dato allo statista due figli: Paralo e Santippo.

Cominciò allora la convivenza con questa giovane donna, una convivenza con manifestazioni del tutto diverse dal costume corrente. Pericle la ama profondamente, e contrariamente sia, come abbiamo detto, alle abitudini dell'epoca sua sia al suo stesso precedente comportamento, non ne fa pubblicamente mistero. Ogni giorno lei lo accompagna sulla soglia di casa e lui l'abbraccia e la bacia con passione di fronte a tutti, atteggiamento inusitato e scandaloso. Di questo amore, in seguito, lo statista stesso in qualche modo subirà le conseguenze negative: il figlio suo e, secondo una tradizione probabilmente veritiera, di Aspasia, Pericle il giovane, diverrà cittadino ateniese solo dopo aver superato molte difficoltà e farà una fine triste e forse ingiusta; qualche anno più tardi, dopo aver ottenuto a fatica la cittadinanza, sarà accusato, insieme ad altri strateghi, di non aver raccolto  in mare i naufraghi dopo la battaglia  navale delle Arginuse nel 406, coraggiosamente tornerà ad Atene per il processo, invece di ritirarsi in esilio come altri; sarà condannato ingiustamente e infine giustiziato.

Intanto quella di Aspasia era divenuta una delle case e dei salotti più famosi di Atene, Senofonte e Socrate la frequentano e, cosa ancora più notevole, anche molte donne. Infinti i pettegolezzi, spesso ingiuriosi. Si accusa Aspasia di essere un'etera, di addestrare ragazze a diventarlo a loro volta, di procurare donne a Pericle e altre infamie.  

Ma chi era in realtà un’etera? Occorre allora fare chiarezza sulla prostituzione nell’Atene del quarto secolo. All’epoca  la condizione femminile era rigidamente determinata, o si era mogli per bene e, almeno ufficialmente, non si aveva alcun peso nella vita del marito e dei figli maschi, o si era prostitute, ovviamente con varie differenze e sfumature: dalle schiave che non potevano certo rifiutarsi ai loro padroni, alle povere disgraziate vendute giovanissime da genitori poveri e miserabili, alle etere che alla bellezza sapevano unire raffinatezza, fascino e cultura.

A differenza delle donne ateniesi di buona famiglia che non avevano nemmeno il diritto di amministrare la propria dote, le etere, spessissimo straniere, riuscivano non di rado ad accumulare ingenti fortune che amministravano in assoluta autonomia, suscitando, come si può facilmente immaginare, invidie e gelosie. Se Aspasia sia stata una di queste rimane dubbio, certo ebbe molta fama, suscitò molte diffidenze e la sua biografia colpì fortemente i contemporanei; di lei parlano Plutarco, Platone e, soprattutto, i commediografi con chiari intenti satirici nei confronti di Pericle: il vero padrone della città completamente soggiogato da una donna per di più di facili costumi.

Tuttavia traspare anche contraddittoriamente dalle stesse fonti una malcelata ammirazione, si attribuisce a lei per esempio l'eloquente discorso di Pericle per i caduti del primo anno della guerra peloponnesiaca, al quale abbiamo accennato. Ed è proprio da queste medesime fonti che conosciamo dettagliatamente i frequentatori  del suo salotto: i più bei nomi della cultura ateniese del' epoca, i quali non disdegnavano alle volte di condurvi anche le mogli, come lo stesso Senofonte, con un atteggiamento per l’epoca assolutamente anticonformista. A tal punto scandalosa appariva la sua condotta che Aspasia fu inquisita per empietà e immoralità e fu Pericle stesso a difenderla in tribunale, d’altra parte colpendo la donna si cercava indirettamente di colpire l’uomo politico stesso, in un momento in cui le perplessità sulla sua conduzione delle operazioni relative alla guerra del Peloponneso cominciavano a destare nei suoi concittadini un’ostilità crescente e sempre meno celata.

 L’accusa era particolarmente grave ed era sostenuta dal commediografo Ermippo,  non per caso che in quello stesso torno di tempo il filosofo Anassagora, anche lui dell’ entourage pericleo,  affrontò le stesse accuse e fuggì dalla città, stessa sorte per il grande Fidia, l’artista del Partenone, accusato di appropriazione indebita o addirittura di furto ai danni dello stato, non sappiamo se sia morto in carcere o anche lui si sia dato alla fuga.

Si aggiunga, per Aspasia, anche l’accusa di immoralità, particolarmente grave perché le si imputava di avviare alla prostituzione donne libere cosa assai riprovevole, mentre né la morale né le stesse leggi si opponevano in alcun modo  all’avviamento delle schiave. Il solo che riconobbe, senza alcuna remora, i meriti di Aspasia fu Socrate su posizioni sempre originali. Se delle donne greche di epoca classica non si conosce nemmeno il nome, sappiamo invece chi era, come si chiamava e che professione esercitava sua madre Fenarete, levatrice, dalla quale asseriva di aver appreso il suo metodo di indagine: la maieutica, come la madre sapeva estrarre i figli dal grembo materno così lui sapeva far emergere le idee.

E così, assolutamente privo  di pregiudizi, sostenne sempre, senza mezzi termini,  di aver appreso la retorica da una donna: Aspasia appunto. Il legame fra la meteca e lo statista continuò fino alla morte di questi.

Durante la guerra, scoppia una terribile pestilenza, secondo la famosa conosciutissima pagina dello storico Tucidide, di che cosa si trattasse con precisione non è dato sapere, probabilmente febbre tifoidea. In città è un'ecatombe, infatti  si ammassavano in malsani tuguri non solo i consueti abitanti, ma anche molti contadini delle campagne circostanti, rifugiatisi dentro le mura per sfuggire alle incursioni degli spartani e secondo una ben precisa strategia dello stesso Pericle che aspirava a fare il vuoto intorno agli eserciti nemici, anche con acume tattico, ma senza aver previsto che proprio l'affollamento di così tante persone in uno spazio ristretto, in condizioni di igiene  assai precarie, avrebbe  dato esca a un' epidemia che con i mezzi dell'epoca non si poteva né arginare né controllare. Lui stesso ne rimase vittima in una forma che all'inizio sembrava blanda, ma che lo portò ugualmente alla morte.

Aspasia, invece, sopravvisse e sappiamo che si sposò di nuovo, con Lisicle. Di lui poche notizie: era commerciante di bestiame e secondo alcune, non del tutto provate, fonti divenne dopo l' incontro con Aspasia un uomo politico di rilievo. Poi più niente; di colei che era stata al fianco dell'uomo più importante, colui che aveva dato il suo nome ad una intera epoca, fra le più splendide della storia occidentale, di questa donna fatta segno di ammirazione e, come spesso accade alle donne ammirate, contemporaneamente anche di scherno, si perdono completamente le tracce.

Moti secoli dopo il suo nome sarebbe stato attribuito ad un'altra regina dei salotti: Fanny, ma quest'ultima, pur molto ammirata alla sua epoca, non sarebbe mai stata ricordata per se stessa, al contrario solo nel suo ruolo passivo di ispiratrice non del tutto  consapevole, per altro, delle qualità geniali dell'uomo che le era capitato, per un breve periodo della sua vita, di incrociare sulla sua strada.

Da:  TOTALITA’.IT

LEOPARDI ED ASPASIA

Il romanzo si chiude con una strofa della lirica Aspasia di Giacomo Leopardi. La propongo qui precisando che nell'interpretazione di Leopardi Aspasia assume il simbolo dell'Amore, che nasce dentro di noi e resta dentro di noi quale sublime idealità.

Grandissimo Leopardi che in pochi versi riesce ad esprimere quel sogno d'amore che  s'invera nell'immagine concreta di una donna. Fanny Targioni Tozzetti è diventata Aspasia perchè la sublimazione del sentimento arreca gioia e felicità, pur nella consapevolezza della soggettività e solitudine dell'innamorato.

Aspasia


Né tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
che smisurato amor, che affanni intensi,
che indicibili moti e che deliri
movesti in me; né verrà tempo alcuno
che tu l’intenda. In simil guisa ignora
esecutor di musici concenti
quel ch’ei con mano o con la voce adopra
in chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dì: se non se quanto,
pur come cara larva, a ora a ora
tornar costuma e disparir. Tu vivi,
bella non solo ancor, ma bella tanto,
al parer mio, che tutte l’altre avanzi.


(Giacomo Leopardi, “Aspasia”, Canti, xxix, vv. 61-76.)

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