Riporto integralmente il testo che ho letto in un allegato al mio romanzo "Una rivoluzione quasi perfetta" presente nella rete bibliotecaria OPAC.
Avendo saputo dell'incontro con l'autore, ho letto in fretta e furia il libro per prepararmi. Il titolo è di attualità (è appena passato il centenario
della rivoluzione russa), e il prologo è intrigante (seppure le religioni non occupino il primo posto delle mie priorità...), presentando il tema della rivoluzione non violenta.
Ma velocemente la curiosità si trasforma pagina dopo pagina in delusione, incredulità e infine irritazione.
Senza svelare niente
della trama, posso sintetizzare che se fosse un film sarebbe un porno, di quelli che non lasciano proprio niente all'immaginazione: penso che la parola erotico compaia più spesso di rivoluzione, la quale sembra risolversi
esclusivamente sul piano sessuale.
La sequela di amplessi viene qua e là interrotta da una superficiale discussione politica, che non rende affatto il clima delle lotte
collettive degli anni '70, periodo in cui si svolge buona parte del romanzo.
L'irritazione raggiunge il culmine quando viene decantata la sacralità di un luogo quale è
la nostra piazza della Loggia, per insozzarla dopo poche righe.
E, ça va sans dire, non sono andato all'incontro con l'autore: il libro mi è bastato
e avanzato.
È incredibile: solo se deve esercitare una stroncatura, qualcuno mi nota e mi fa una recensione. Cattiva, violenta (alla faccia della non violenza, tema del romanzo), liquidatoria. Però parla del mio romanzo! Un lettore sconosciuto, che mi dedica una breve attenzione per parlare male; però si pone in relazione col libro, enuclea dei concetti, riflette, poi dichiara sconcerto (ribrezzo?).
Comunque questo lettore sconosciuto mi offre un’opportunità, mi dà l’assist per approfondire, fare chiarezza, sviluppare aspetti, che un autore a volte dà per scontato. Come quello relativo al sesso!
“È letteraria l’opera che entra negli angoli di una casa, senza vergognarsi di tirar fuori e mostrare ciò che le ombre nascondono, e che descrive qualunque momento della vita di un individuo, senza vergognarsi di rappresentare le crudeltà e l’abominio. Se siamo in presenza di una ricostruzione letteraria dell’universo in sfacelo, l’opera svela i segreti non di una trama, ma dei cuori dei suoi personaggi: questo è il vero manifesto di una rivoluzione mondiale. La letteratura allora è più potente della politica, perché denuncia e avverte, perché non rasserena, anzi preoccupa, non lascia dormire sonni tranquilli. La letteratura è surreale, è ironica, è cinica, è erotica, è palesemente provocatoria; non ammette censure, né tecniche, né morali. Descrive il coito più travolgendo nel letto dei due amanti, siano eterosessuali o omosessuali. Nessuna descrizione sessuale, neppure la più dettagliata può essere vista come pornografia. Blasfemie e ateismi sono categorie inconcepibili.” ( G.Cinque, Diario minimo di uno scrittore esordiente pag.58-59)
Forse il mio lettore sconosciuto è rimasto scandalizzato, non perché ho dato spazio al sesso (anche se sembra il contrario), ma perché a suo dire ho tradito con la mia ricostruzione il Sessantotto. Non ho parlato dei grandi sommovimenti, non ho fatto la cronaca delle grandi lotte. La mia è soltanto una superficiale (sic!) discussione politica. Vediamo: Paolo S., il protagonista settantenne del racconto, che vuole scrivere un romanzo su Gesù e non un testo di memoria del periodo storico che ha vissuto, ma che ora cerca di ricostruire con la sua biografia privata per capire che cosa sia stata la violenza pubblica e privata di quegli anni, riporta i riflessi di esperienze personali dirette legate:
Ma tutto questo ed altro ancora è sullo sfondo dello sviluppo della trama del romanzo, che riguarda la storia privata psichica, problematica di un uomo e delle sue ossessioni, pregiudizi, manie, derive istintuali ed erotico-sessuali.
Diversamente avrei scritto un saggio, ben documentato e con una dotta bibliografia.
Ma Una rivoluzione quasi perfetta è un romanzo che ha una pretesa letteraria, che vuol dire cimentarsi con una scrittura che miri a penetrare nei cuori e nella psiche dei personaggi.
Vita privata e sesso si misurano con i grandi ideali e mettono a nudo le mille meschinità, anche di chi ha avuto aspirazioni rivoluzionarie e progetti per profondi cambiamenti politici.
Già a partire da Gesù e dal suo grande messaggio rivoluzionario delle Beatitudini il protagonista si scontra con un’umanità piena di contraddizioni e di limiti, ma sempre alla ricerca di una salvezza…
Certo può colpire l’attenzione di un lettore sensibile (frettoloso?) la descrizione di scene erotiche giudicate eccessive. Ma questa ossessione del protagonista è l’altra faccia, quella più nascosta della violenza privata, che si annida anche nei rapporti più intimi, personali, inconfessabili, anche se a volte è l’unica arma contro il potere. Come succede nell’esercito, dove il bieco militarismo fa dell’omofobia una bandiera di iattanza e superbia maschilista.
È probabile che non siamo abituati, a guardare dentro. Cerchiamo la violenza sempre fuori, negli altri!
Ma spesso la violenza è dentro di noi, inconfessabile. E Paolo S., l’insofferente protagonista di Una rivoluzione quasi perfetta, cerca di esternarla, di coglierne la dimensione più misteriosa.
Il confronto tra Paolo S. e le sue donne, l’infaticabile ricerca di piaceri erotici nell’ambito di una più generale visione della politica sui grandi eventi ma anche quella dei rapporti privati, e dell’intreccio tra vizi privati e pubblica virtù appartengono a pieno titolo al Sessantotto, che ha fatto della rivoluzione sessuale una liberazione dai soffocanti tabù per la ricerca di una nuova dignità del sesso e dei rapporti tra le persone, in una lotta aperta contro l’omofobia. Solo chi ha vissuto veramente quel clima libertario può rendersi conto di come fu importante la piena rottura della cappa di bigottismo che purtroppo è tornato imperante ai giorni d’oggi.
Vedere nel sesso ancora il male o la sozzura, che inquina la memoria di piazza Loggia è inaccettabile, perché ciò che viene dopo è la fine di un’illusione, la fine dell’età dell’innocenza, la fine di un’ingenuità.
<<Paolo S. dal tavolo del ristorante dov’è seduto in piazza della Loggia volge lo sguardo alla stele, che ricorda gli otto caduti di quel ventotto maggio 1974, quando scoppiò l’ordigno crudele per mano fascista. Sono trascorsi più di quarant’anni, più di una generazione; il ricordo collettivo può essersi sbiadito, eppure per lui è come se si fosse fermato il tempo. Lì è avvenuta una cesura tra le idealità, i sogni rivoluzionari e la dura realtà. È stato come se l’età dell’innocenza, l’età di una politica da poter esercitare senza violenza, avesse avuto termine. Aveva avuto come la sensazione che in quel ventotto maggio si fosse infranta la speranza per un mondo rappacificato, per una Rivoluzione non violenta, una Rivoluzione perfetta.>>( Una rivoluzione quasi perfetta, pag. 241)
Solo un lettore frettoloso (o in mala fede) può confondere i piani narrativi, definendo sozzura la svolta ideologica, culturale e personale che si trova ad affrontare il protagonista, che matura l’impossibilità di una prospettiva per il suo progetto di un romanzo su Gesù.
Tutto questo il mio sconosciuto lettore poteva approfondire e magari ancora confutare se solo avesse avuto meno fastidio (ribrezzo sessuale, pornografico) e fosse venuto all’incontro con l’autore, con cui interagire.
In un capitolo del libro di Marco Aime e Luca Borzani "Invecchiano solo gli altri" viene descritta in maniera esemplare l'ideologia culturale degli anni Sessanta e Settanta riguardante il tema del rapporto tra il personale e il politico, che attraversa la narrazione del mio romanzo "Una rivoluzione quasi perfetta".
Riporto alcuni passi del citato libro:
Tra i molti slogan che risuonavano nelle discussioni, nei dibattiti, nelle assemblee collettive di quegli anni «il personale è politico» era sicuramente uno dei piú innovativi e interessanti. Nato a cavallo dei due decenni Sessanta e Settanta, tra i gruppi giovanili di sinistra e in particolare tra le donne, questo motto voleva indicare una svolta che si potrebbe definire intimistica, personale nel modo di fare politica: non si può volere un mondo nuovo e diverso se prima non si diventa noi stessi donne e uomini diversi. Questo volevano dire i giovani di allora; l’impegno politico doveva essere innanzitutto coerente con uno stile di vita fondato su una serie di nuovi valori individuali, che vanno dal rapporto di coppia a un certo tipo di linguaggio e perfino al modo di vestirsi e di pensare il corpo. Non a caso fu proprio il neonato movimento femminista italiano a porsi in antitesi al culto della violenza rivoluzionaria, e al predominio del maschile. Non si poteva piú accettare che gli ideali di eguaglianza e di parità fossero validi solo a livello teorico e la politica fosse un’attività separata dalla pratica quotidiana dei rapporti interpersonali. Quegli stessi ideali gridati in piazza dovevano tradursi in un nuovo modo di vivere le relazioni. Anche se questo era in evidente contraddizione con l’ortodossia di tradizione leninista che connotava molti gruppi della sinistra extraparlamentare. Il «partire da sé» del femminismo metteva in discussione il ruolo dei leader, del potere, delle ideologie. All’inizio degli anni Settanta avevano anche cominciato a diffondersi le idee di Michel Foucault sulla biopolitica, secondo le quali era proprio il corpo il principale oggetto su cui il potere, in epoca capitalista, agiva per controllare le popolazioni. Corpo come area d’incontro tra potere e sfera della vita. Un incontro che si realizza pienamente in un’epoca precisa: quella dell’esplosione del capitalismo. Il controllo delle condizioni della vita umana diventa un affare politico; il potere – grazie all’uso di discipline scientifiche come chimica, biologia, genetica e statistica o di saperi quali la demografia, la psichiatria, la sociologia, la criminologia, la sessuologia – delinea i contorni della «normalità» e fornisce alla società gli strumenti concettuali per la gestione delle attività biologiche. La resistenza al potere passa quindi attraverso la rivendicazione di una vita non alienata, la soddisfazione dei bisogni e dei desideri, la salute e la felicità. Per questo il corpo assunse via via un ruolo centrale nelle nuove narrazioni giovanili. Un corpo liberato dai vecchi schemi e da costrizioni considerate oppressive. Si scoprí una nuova sessualità, piú libera, come quella narrata in Porci con le ali, libro scritto da Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice nel 1976, che divenne una sorta di manifesto di questa condizione. Il romanzo, il cui sottotitolo è significativo, Diario sessuo-politico di due adolescenti, fece scandalo per il linguaggio e le descrizioni dettagliate di atti sessuali. Narrato in prima persona a due voci dai protagonisti, i liceali Rocco e Antonia, racconta il loro anno scolastico presso un liceo romano in cui l’impegno politico si intreccia a momenti personali, grandi speranze e grandi frustrazioni, primo tra tutti il loro amore destinato a esaurirsi presto. Proprio nella seconda metà degli anni Settanta contro l’involuzione burocratica dell’estrema sinistra irrompevano i nuovi movimenti del «proletariato giovanile». Emergendo dalle periferie metropolitane, rivendicavano la distanza dalla «politika» e il primato di quei «bisogni» che la filosofa ungherese Ágnes Heller chiama «radicali»: l’introspezione, l’amicizia, l’amore, la convivialità e il gioco, la cui natura non è quantitativa ma qualitativa. Ciò che conta è la loro profondità, non la loro estensione. Erano i giorni dello «sballo», del festival di Parco Lambro, del «riappropriarsi» della musica e della creatività, della riscoperta della soggettività contro l’alienazione della militanza. Questi movimenti di fatto anticipavano il progressivo emergere del «privato» a fronte del «pubblico». La ferocia armata del terrorismo contribuí poi ulteriormente ad alimentare il «riflusso» e la percezione della fine di una stagione, lo svuotarsi di un sentire generazionale. Prevalse cosí un sentimento diffuso di sconfitta storica e la ricerca di soluzioni individuali. Di lí a poco il «no future» dei punk si sarebbe affacciato a chiudere un’epoca. Nella prefazione all’edizione di Porci con le ali del 2001, Lidia Ravera chiarisce il senso della nascita di quel racconto: rivendicare il diritto a non prendersi sul serio da parte di due giovani alle soglie dell’età adulta e a ricercare la libertà e la felicità, nonostante l’ombra incombente della crisi dell’auto-organizzazione e la minaccia incombente del grande vuoto politico che di lí a poco sarebbe seguito.