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1 Febbraio 2016
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Molti conoscono il mito delle origini di Eros, raccontato da Socrate nel celebre Simposio di Platone. Ma Socrate, a sua volta, sta raccontando ciò che un’altra persona gli aveva insegnato, una donna di Mantinea, Diotima, maestra in quello (l’amore) ed altri campi.
“Amor vincit omnia”, Caravaggio. La raffigurazione classica di Eros non si addice molto all’immagine che ne dà Diotima nel Simposio…
La figura di Diotima, per bocca della quale apprendiamo una delle tante sfaccettature dell’Amore, non è rimasta ignota alla tradizione moderna: il poeta tedesco Friedrich Hölderlin, il tormentato, folle Hölderlin, ha elevato al rango di musa ispiratrice Susette Gontard, l’amore della sua vita, dedicandole una gran quantità di poesie col nome di Diotima e un ruolo da protagonista nel romanzo epistolare Iperione (pare che, al momento della pubblicazione del secondo volume, ne avesse inviato una copia alla sua amata con la dedica “A chi, se non a te?”).
Come abbiamo detto, è Diotima ad aver insegnato a Socrate molte cose sull’amore, distogliendolo dai suoi pregiudizi. Socrate era infatti convinto che Eros fosse un dio bello e potente: come immaginare altrimenti il custode di un sentimento tanto elevato? Eppure è proprio questo, afferma Diotima, il grande errore: Eros non è bello né valente e, nonostante ciò, non possiamo considerarlo brutto oppure indegno.
Questo è il nodo del concetto di amore secondo Diotima, che vedremo chiarito grazie al mito sulle origini del demone. Ricordiamo che Platone attribuiva un grande valore al mito, capace di alludere ad un concetto non esprimibile altrimenti, indicibile eppure veritiero: in questo caso, il mito ci chiarisce la natura e il ruolo di Eros. Egli non è un dio né un uomo: è un semidio, un demone, un intercessore dal mondo umano alle divinità e dal divino all’uomo. Mettetevi comodi e ascoltate la storia di Diotima.
Al gran banchetto in onore della nascita di Afrodite erano presenti molti dèi, tra cui Póros, “espediente”, “ingegno”, e Penìa, “povertà”, attratta a fine pranzo dall’abbandonza della tavolata. Approfittando dell’ebbrezza di Póros, Penìa gli si sdraiò accanto e restò incinta di Eros.
Tramite queste ultime parole, Diotima esprime a Socrate non solo l’essenza di Eros, “in bilico fra maestro e ignorante”, ma anche di tutti coloro che da Eros sono colpiti, ossia degli amanti: non possiedono l’oggetto del loro amore, ma neppure lo ignorano; tendono ad esso e in questa tensione si esplica l’amore.
Symposium, Anselm Feuerbach
“Tempesta di neve”, Turner. I quadri del pittore romantico inglese rappresentano molto bene il gelido mondo moderno e tempestoso che dipinge Hölderlin nelle sue opere.
Forse stiamo correndo un po’ troppo. Perché parlare di tutto ciò? Il nostro obiettivo era, in realtà, capire chi fosse Diotima… ma quest’idea di amore non è stata accantonata, anzi torna prepotentemente in modo ciclico nella letteratura e una delle sue più evidenti presenze è in alcuni autori tedeschi, tra cui – appunto – Hölderlin.
Dobbiamo preliminarmente mettere in chiaro una cosa: Hölderlin non è un romantico. Cronologicamente, le sue opere precedono di pochissimo quelle del celebre circolo di Jena, ma concettualmente c’è un abisso a separarli: tanto i romantici sono ottimisti, quanto Hölderlin è tormentato e lacerato da un conflitto insanabile.
A tormentarlo, infatti, c’è qualcosa che nella letteratura italiana risulterà familiare a molti, perché un celebre passo dello Zibaldone di Leopardi pone lo stesso problema: la frattura tra mondo classico e mondo moderno, quell’irraggiungibile felicità che pervadeva gli antichi, unitari e perfetti nella loro armonia, e che ha per sempre abbandonato il mondo dei moderni. Hölderlin, come Leopardi, si schierava dalla parte del mondo classico… ma proprio come Leopardi, lo faceva in un modo tutto suo, malinconico e un po’ cinico, consapevole dell‘impossibilità della sua aspirazione: in un modo, se vogliamo, romantico.
La figura di Diotima rappresenta, in Hölderlin, il richiamo a quell’unità e a quell’armonia del mondo classico a cui il poeta aspirava senza riuscire mai a raggiungerla: una felicità agognata, ma inarrivabile. Abbiamo dunque richiamato il mito di Eros, raccontato dalla Diotima platonica, per spiegare la figura di un’altra Diotima, quella di Hölderlin:
Il Caos del tempo è la barbarie in cui, secondo Hölderlin, versa la modernità: gli uomini sono troppo presi dai loro impieghi quotidiani, troppo occupati a identificarsi nel proprio lavoro e troppo egoisti perfino per accettare la libertà che la rivoluzione francese aveva fugacemente prospettato; sono operai, ma non uomini, pensatori, ma non uomini, sacerdoti, ma non uomini, padroni e servi, giovani e gente posata, ma non uomini… [1] hanno perso, insomma, l’essenza della loro umanità.
Abbiamo preso in prestito queste ultime parole da una lettera di Iperione, protagonista dell’omonimo romanzo epistolare innamorato di una donna di nome Diotima. Anche qui ritorna l’immagine di un essere superiore, la cui sola presenza è benefica perché infonde un senso di pace nel protagonista:
Ma Diotima non è solo l’emblema dell’armonia perduta: è anche una creatura estremamente saggia, forse l’unica persona saggia in tutto il romanzo. Iperione (come Hölderlin) desidera ardentemente la sua saggezza e la sua armonia proprio perché non la possiede.
Nonostante tutta la sua saggezza, Iperione si getta in un’avventura rivoluzionaria che sarà causa di molte sue sofferenze future: quel mondo classico vagheggiato e tanto amato non può riproporsi nel presente, il suo amore – la sua tensione, in senso platonico – lo porterà necessariamente all’isolamento e al rifiuto del barbaro mondo presente. Così, come la poesia prima menzionata si conclude con uno scenario paesaggistico dalle sfumature temporalesche e sublimi, Iperione rivolge il suo amore alla natura, ultima depositaria del suo legame con il mondo.
Maria Fiorella Suozzo
Simposio, apologia di Socrate, Critone, Fedone, Platone, a cura di Ezio Savino
Iperione, Friedrich Hölderlin
http://machiave.blogspot.it/2013/01/friedrich-holderlin-diotima.html
06-Millenaria sapienza dell'Occidente-Il Simposio di Platone
TIRESIAS Y ULISES
En mi novela mitológica Tiresias, el profeta desconocido, (ExLibric, 2025) el último don que Zeus concede a Tiresias es el de continuar siendo profeta incluso después de la muerte. Por eso, Zeus exhorta a su hermano Hades a que permite la entrega de este don tan particular. Hades, finalmente, lo concede y, por esta circunstancia se produce en su reino del más allá el encuentro entre el héroe Ulises, aún con vida, y Tiresias recién fallecido. Es un encuentro épico: dos mundos muy distintos se encuentran.
Por eso, merece que me detenga en lo que se dicen estos dos personajes mitológicos, a quienes he reinterpretado desde una perspectiva nueva, más moderna.
Ulises quiere conocer su porvenir, ya que se acerca el momento de regresar a su isla, Ítaca. Desea saber qué le espera: si tendrá que luchar, y cómo es la condición política y familiar de su reino tras veinte años de ausencia. Como héroe épico está llamado a cumplir su destino, y precisamente por su carácter extraordinario le está permitido encontrarse con las ánimas del más allá. Ulises desea con ansias esta oportunidad. Toma la iniciativa, convencido de que solo con conocimiento se pueden evitar pasos en falso. Para él encontrar a Tiresias es un acontecimiento crucial. Sus expectativas son altas, pues ha recibido noticias halagüeñas sobre el profeta, muy distintas de los rumores que lo presentan como incapaz de prever el futuro. Tiresias, en cambio, no tiene ningún interés en encontrarse con Ulises. No siente simpatía por los héroes, y la fama épica es solo aburrimiento. Su único pensamiento es íntimo y privado: concierne a su hija Manto, de quien está profundamente enamorado. Su mayor deseo es que ella siga viviendo el mayor tiempo posible.
Apenas se encuentran, ambos reaccionan de forma muy distinta: la de Ulises es entusiasta, mientras que la de Tiresias es critica. Tiresias declara pronto que es una estúpida ilusión creer en el futuro, porque el destino no puede ser detenido. Por eso afirma que la petición de Ulises de encontrarlo es un desperdicio de tiempo. Entonces lo invita a dejar el mundo de tinieblas del más allá y a volver entre los vivos. La actitud del profeta decepciona profundamente al héroe, que había buscado a Tiresias con la esperanza de obtener apoyo para su regreso a la patria, Ítaca. Pero Tiresias le dice claramente que no necesita que nadie le indique cómo actuar al llegar a su reino, porque todo está ya escrito en su cuerpo. Lo que realmente necesita, añade el profeta, es saber qué le ocurrirá en su mente, en su psique. Porque, mientras siga siendo un héroe, que lucha contra enemigos exteriores, todo será más fácil. Pero si el enemigo está dentro de sí mismo, entonces, sin duda, estará perdido.
Ulises queda profundamente golpeado, porque siempre ha considerado que sus enemigos estaban fuera de él y eran ellos a quienes debía enfrentar. Sabe, por rumores entre los marineros, que los pretendientes se han adueñado de su casa real, que siguen amenazando la promesa de su esposa, y que su hijo Telémaco vive como un prófugo. Esta es la situación que debe ser desenredada, y la profecía de Tiresias sobre su porvenir podría serle de gran ayuda. Por eso, Ulises cree que no debe mirar dentro de sí, sino hacia fuera. Sin embargo, Tiresias insiste en que el verdadero problema de Ulises no es cuando ponga los pies en su tierra y se enfrente con los pretendientes, porque en ese momento estará cumpliendo su papel de héroe, tal como será recordado en la historia. Con o sin profecías, él derrotará a sus enemigos, será violento y se manchará las manos de sangre. Como vencedor, se presentará ante su esposa, con la soberbia épica de quien se impone y sobresale. Pero nadie sabrá nunca lo que le ocurre después, cuando, despojado del manto de héroe, se ponga el abrigo del antihéroe en la vida privada y descubra con sorpresa que el verdadero enemigo estalla dentro de sí. Todo comienza con el abrazo de Penélope: es el primer asalto del enemigo que Ulises lleva consigo. Entre las sábanas fielmente preparadas por la nodriza Euriclea, los cuerpos buscan la antigua llama del amor. Pero el tiempo, que transcurre inexorable, ha dejado cambios profundos: veinte años son muchos. Ulises no encuentra a su esposa Penélope, y Penélope no reconoce la dulzura de su esposo. El hombre se mostrará violento y la mujer se quedará fría y distante. Ulises compara esta relación sexual con su esposa con las que tuvo durante su viaje errante. Hay incomprensión. Penélope le grita a Ulises que le hace daño, que ya no es el hombre que ella recordaba por su dulzura y cariño. Y Ulises le grita a Penélope que no es la mujer que ha amado durante todos esos años, sino una mujer madura, extraña, fría y sin pasión.
Ulises se opone a esta visión y le declara a Tiresias: “¡Nunca seré como me describes!” (pág. 151). Sin embargo, Tiresias le contesta que el tiempo envejece, y la vejez es un enemigo cruel e inexorable. Afirma que las parejas terminan por convertirse en lugares marcados por la indiferencia y el vacío de intereses. Ulises contraataca, reafirmando que él es un héroe y nunca se convertirá en un antihéroe como Tiresias llama a los individuos anónimos y sin coraje. Él ha luchado durante tantos años para regresar y rencontrarse con su amada y fiel esposa y con su hijo, porque cree firmemente en la familia y en el amor. ¿Cómo es posible, se pregunta Ulises, que Penélope y él, una vez alcanzado el objetivo de unirse, terminan peleando como cualquier pareja? El amor verdadero jamás podría ser atacado por el tiempo y morir por un enemigo que habita dentro de nosotros. Él será recordado como un amante fiel y nunca perderá su pasión sexual ni nada podrá hacer que esta mengüe. Sin embargo Tiresias continúa con su profecía y añade que, tras el gran fracaso del primer intento sexual con Penélope, ella no querrá volver a acostarse con él. Le dirá que necesita más tiempo para acostumbrarse a convivir con un hombre que conoció y amó veinte años atrás. Entonces, comenzará a faltar la comunicación entre ambos: ningún de los dos tendrá ganas de hablar sobre lo vivido durante tanto tiempo de ausencia. El silencio se impondrá como una barrera implacable. Tiresias deja entrever también que Ulises intentará seducir a Penélope en más de una ocasión, pero sin éxito. Y cada vez que fracase, terminará por decirle palabras ofensivas a su esposa. En este punto, Ulises protesta que jamás diría palabras ofensivas a su mujer porque ella es digna del máximo respeto.
Sin embargo, el profeta le explica que siempre ocurre lo mismo: una cosa es cómo se actúa en público, y otra muy distinta es cómo se reacciona en la vida privada, especialmente cuando llega la vejez. Lo más grave para Ulises es que será víctima de un aburrimiento mortal. Los días trascurren inexorables tras su regreso victorioso al reino, y no sabe qué hacer. En la isla no tiene intereses, no tiene más amores sexuales, no tiene a quien contarle su vida. Su hijo y su esposa le resultan extraños. Así envejece, adoptando una rutina privada como cualquier hombre normal. Entonces se le planteará una elección crucial: ¿continuar viviendo la vejez en Ítaca, frustrado por la monotonía y la indiferencia sexual de Penélope o traicionar los valores de la familia y de la patria para volver a viajar libremente por el mundo, en busca de nuevos descubrimientos y de nuevas relaciones sexuales con mujeres jóvenes y seductoras? Tiresias concluye su profecía sin pronosticar cuál será la decisión final de Ulises, porque, al fin y al cabo, eso importa poco. Lo que realmente interesa “es que no se es héroe cuando alguien cumple algo extraordinario, sino cuando lo es en la vida normal y privada de cada día. Es en la intimidad donde expresamos lo que somos sin engaño y sin mentiras.” (pág. 154 – 155).
Ulises está trastornado: todas sus ideas de grandeza y sentido de la vida han caído. Solo le quedan los afectos más privados, más íntimos. No sabe qué responder. Solo pregunta si Tiresias sabe dónde puede hallar la sombra de su madre. Tiresias no contesta, porque, a su vez ,“piensa en su deseo de tener consigo a su hija Manto, pero ya es de nuevo un soplo evanescente en el silencio de la muerte.” (pág. 155).
Como, al fin y al cabo, ocurre también en la vida.